giovedì 25 luglio 2019

Cinque speleo in mezzo alla devastazione del ciclone Vaia

Come in ogni mercoledì che si rispetti, ci si accorda per le uscite del fine settimana. Stavolta, complice il fatto che io sia già in quel dell'Altopiano di Asiago, decidiamo di andare in un abisso. Non un abisso qualsiasi, bensì l'abisso di Malga Fossetta che si infila nelle viscere dell'altopiano carsico dei sette comuni per oltre mille metri di profondità.
Gli altri compagni speleo partono da Padova all'alba di una domenica di mezz'estate. 2019. Li attendo caricando la macchina e verificando l'attrezzatura. Parto e li raggiungo in breve al Rifugio Campomulo sulle Melette di Gallio.
Sono già lì. Anna, Alice, Lorenzo e Saverio, seduti con cappuccino e fetta di torta arricchita da qualche krapfen. Fame speleologica.
Mi unisco con una fetta di torta ai pinoli. Io e la frutta secca ci siamo conosciuti e innamorati subito, complice il mio corso d'introduzione alla speleologia.
Dopo un veloce trasbordo del materiale sul mio furgoncino, si parte!.
Arriviamo dopo circa tre quarti d'ora di strada bianca a Malga Fossetta.
Leggendo le indicazioni di avvicinamento alla grotta, proviamo a fare, scarichi dai materiali, una puntata in bosco.
Eravamo consapevoli che non sarebbe stato facile trovare l'ingresso. Ma non ci aspettavamo di certo quello che da lì a poco si sarebbe rivelato il problema della giornata.
Il bosco non è più il bosco.
Quanti chilometri di bosco ho fatto nella mia vita? tanti sicuramente. A cercar funghi, a seguir sentieri, a vagare in cerca di legna da far bastoni o da intagliare. Il bosco mi ha sempre trasferito sensazioni rassicuranti. Il fitto dei suoi alberi mi ha sempre confortato.
Avevo già visto dal vivo i danni del Ciclone Vaia dell'ottobre 2018 ma non così da vicino, non nei boschi dell'altopiano. Non nei boschi della mia infanzia.
E' un'ecatombe.
Decine, centinaia di abeti bianchi e rossi totalmente sradicati e distesi al suolo, gli uni sugli altri. Accatastati.
Come in una grande fossa comune.
Ciò che più colpisce è che dopo un inverno passato a terra morti, sono come scoloriti, sono ingrigiti, sono del colore della morte, rispetto ai fratelli sopravvissuti che li guardano ai loro piedi.
Scavalchiamo, aggiriamo, passiamo sotto e attraverso, con fatica.
Non c'è traccia da seguire, né umana, né animale, in quell'inferno.
Tutto è sconvolto.
Tutto è cambiato.
Seguiamo le indicazioni del GPS verso le coordinate, in un mare di legna.
Trecentomila abeti solo sull'Altopiano di Asiago. 14 milioni tra faggi e abeti in tutto il Nord-Est. L'olocausto degli alberi.
Dopo cento anni dall'ultima devastazione che distrusse oltre l'80% del patrimonio boschivo delle terre dei cimbri.
Quella volta fu la mano del demone Uomo.
Oggi, un ciclone con venti ad oltre 150 km/h dal nome di una donna, una manager tedesca, una Lilith dei nostri giorni, una demone della tempesta.
Dopo quasi due ore di ricerca grazie alla perseveranza e al lavoro di squadra riusciamo a trovare l'alto cilindro verde che permette di accedere all'ingresso della grotta nel periodo invernale quando il manto nevoso ricopre questi martoriati boschi.
Per ritornare al furgone ci impieghiamo almeno un'ora con non poche difficoltà.
Decidiamo di abbandonare l'idea di tornare all'ingresso, si è fatto troppo tardi, sono le 13 passate.
Ci torneremo.
Consapevoli.
Preparati.
Oggi rifletto sulle sensazioni e alle emozioni provate in quel campo di sterminio.
La cosa che più mi colpisce anche a mente fredda è che anche Madre Natura per quanto grande e millenaria, muta.
Cambia pelle, radicalmente e repentinamente.
Il bosco, secolare, buio, severo, austero, schianta, in una notte e muore, per sempre.


Marco R.

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