È già passato un anno dall’ultima esplorazione laggiù. Un anno durante il
quale non ho mai smesso di ripensare a quei posti, tanto remoti quanto
affascinanti. In quella punta ci rendemmo subito conto di essere entrati in un
altro sistema, tanto erano diversi gli ultimi ambienti trovati.
Infinite volte, in questa lunga attesa, ho provato ad immaginarmi cosa
potesse esserci oltre quel limite, al di là di quella finestra.
Saltata la punta estiva per le scarse disponibilità e quella di novembre
causa maltempo riponemmo tutte le nostre speranze su quella invernale,
storicamente la più fortunata.
È il primo pomeriggio di mercoledì 2 gennaio quando, carichi come muli,
costeggiamo il Lago della Stua e ci incamminiamo verso la Piana di Erera. Circa
3 ore ci separano dalla Casera Brendol e da ciò che più la rappresenta, il
minestrone del Cicca.
Dopo una notte abbastanza ventosa, verso le 10 di mattina abbandoniamo la
Casera e ci dirigiamo all’ingresso grotta. Quest’anno siamo in 5. Avrò il
piacere di condividere questo lungo viaggio con Francesco Sauro, Mattia Merlo
(Figata), Giovanni Ferrarese (Ciccio) e Filippo Felici (Felpe).
Appena giunti in prossimità della grande frattura d’accesso al PE10 Ciccio
ci comunica che non se la sente di entrare. La causa è un forte mal di schiena
che lo tormenta già dalla sera prima.
Ci dobbiamo riorganizzare con i materiali. Ora siamo in 4 con 6 sacchi, non
ci sono alternative.
È da poco passato mezzogiorno quando incomincio ad attrezzare il pozzo
d’ingresso. Un paio di frazionamenti, passo il deviatore e un rumore secco
precede una pendolata di qualche metro nel vuoto. Riesco ad aggrapparmi al
traverso sottostante e subito mi ritrovo sul discensore l’intero deviatore
(moschettone, fettuccia e piastrina). È saltato l’attacco, o meglio, si è
spezzata la vite dello spit. Incominciamo bene. Per fortuna era solo il
deviatore.
Tutto procede poi regolarmente. Facciamo qualche sosta per recuperare un
po’ di materiale per strada e all’incirca dopo 12 ore di progressione siamo al
bivacco di Samarcanda (Campo 3). Montiamo velocemente una seconda tendina
(nell’altra ci si sta solo in 3) e finalmente ci concediamo una bella dormita.
Freschi e riposati, dopo un’abbondante colazione, partiamo per l’esplorazione. Altre 2 ore di progressione ci separano dal limite raggiunto lo scorso anno. Arriviamo quindi sul Pozzo del Fanciullo (lo discese per primo Marco ancora minorenne) e qui ci dividiamo. Io e Cesco scendiamo per vedere il ramo a valle mentre gli altri iniziano un bel traverso per raggiungere l’imbocco della galleria più in alto. L’obiettivo principale è quello di continuare a salire nella speranza di trovare l’ingresso alto.
Ci diamo appuntamento un paio d’ore più tardi.
Scendiamo seguendo l’attivo fino ad un saltino dove l’ultima volta ci
eravamo fermati per mancanza di materiale. Armo la calata, pendolo sul terrazzo
più in là e subito vedo nero oltre alcuni massi incastrati. Là sotto c’è un
ambientone, tanta acqua e tanta aria. Per scenderlo però ci vorrebbe più corda
e noi abbiamo solo una 40 (la priorità è la finestra in alto). Bisognerebbe
bypassare quel saltino di 7-8 metri. Proviamo a disarrampicare più indietro,
superiamo alcune strettoie e ci troviamo proprio nello stesso punto. Adesso che
abbiamo corda a sufficienza inizio a scendere, 3 frazionamenti e sono nel vuoto
in un pozzone di 30 metri con un grande frastuono d’acqua. Dalla base partono
due vie. Cesco segue l’attivo e dopo un po’ ritorna dicendo che continua, io
invece mi arrampico su un a finestra e proseguo in galleria fino ad arrestarmi
su un pozzo da scendere. Per il momento quaggiù può bastare, adesso dobbiamo
raggiungere gli altri.
Saliamo rilevando e, proprio uscendo dal pozzo, ci accorgiamo che in alto
dalla parte opposta parte una galleria comodamente raggiungibile. E noi che
pensavamo fosse un rametto trascurabile.
Più tardi chiameremo questo posto “Ramo Stroganoff”, in onore della più
discussa e migliore busta
liofilizzata della punta (carne stroganoff con riso).
Raggiungiamo Felpe e Figata ben 4 ore dopo esserci separati. Nel frattempo,
con grande estro,
hanno attraversato il pozzo su delle cenge e sono entrati nella galleria in
alto.
Una volta arrivati lassù ci troviamo, come per magia, in un luogo che tutti
noi avevamo sognato. Un
grande meandro a buco di serratura dà accesso a quelle che poi chiameremo
“Terre di Lochness”.
Sul fondo scorre un piccolo corso d’acqua. Ai lati, più in alto, le rocce
sono ricoperte di sabbia. Qui
rinveniamo tracce vegetali e uno scheletro di pipistrello.
Proseguendo, tra una curva e l’altra, il rumore di una cascatasi fa sempre
più forte e vicina.
Sbuchiamo in una bella sala dove ci sono i nostri compagni già impegnati
nella risalita di un pozzo
da 20 metri. In cima, dopo un bel meandro sfondato, si ritorna di nuovo a
camminare su sabbiolina. E’ l’euforia più totale, nessuno di noi ha mai esplorato posti simili. Gli
ambienti sono veramente grandi e le nostre urla di gioia rimbombano per tutto il ramo. Intercettiamo un altro
arrivo d’acqua, superiamo alcuni laghetti e ci troviamo di nuovo un pozzetto da
risalire.
Arrampicando in opposizione da un lato riesco ad arrivare su un terrazzino,
quindi con 3-4 attacchi attraverso e sono fuori.
Attrezzo la calata, poi Felpe e Figata vanno avanti mentre io e Cesco
rileviamo.
Si continua a risalire l’attivo, prima in libera poi con un saltino di 3
metri. Ormai non ci resta molta corda, forse 20 metri, ma la fortuna quest’oggi
sembra sorriderci. Troviamo un’altra bella sala con l’ennesimo risalto che a
spanne stimiamo fattibile con la corda rimasta. Qui la grotta cambia ancora,
noi risaliremo nel fossile tralasciando l’attivo.
Sfruttando un paio di terrazzi, in poco tempo e con poco materiale, Felpe
riesce a salire su. Arma più tirato possibile e la corda arriva ad un metro da
terra, che culo!
Abbiamo fatto fuori quasi 200 metri di corda e sappiamo che questi saranno
gli ultimi ambienti esplorati. Mentre salgo sento Felpe borbottare qualcosa ma
capisco solo “mostro”. Lo raggiungo e mi basta vedere nero dietro di lui per
capire di cosa stava parlando. Siamo capitati di fronte, anzi sotto, ad un
mostro impressionante. La roccia sale liscia e tonda per chissà quanti metri.
Le nostre luci non bastano per illuminarlo completamente. Arriva Cesco, ancora
ignaro di tutto ciò, chiedendo a Felpe cosa ci sia di così incredibile: “eh
dimmi un po’ tu” è la risposta!
Con il telemetro misuriamo un diametro di quasi 20 metri, 16 metri in basso
e 81 in alto. Siamo sconvolti, ci aspettavamo di tutto ma a questo non eravamo
preparati.
Bisogna darli per forza il nome di una creatura spaventosa dice subito
Cesco, magari un mostro marino. Il “Kraken” li calza a pennello.
Cercavamo l’uscita proprio qua sapendo che avevamo poca roccia a dividerci
dall’esterno. Ora, con un pozzo così, potremmo essere veramente ad un soffio
dalla luce del sole.
Il rilievo poi dirà che non dovrebbero esserci più di 30 metri dalla
sommità del Kraken a fuori. Questa primavera si comincerà a battere la zona di
Pian di Cimia, dove ci sono già alcune cavità note.
La speranza è di poter scendere dall’alto questo mostro e dare finalmente
una svolta eclatante alle esplorazioni laggiù. Viene la pelle d’oca a pensare
quanta progressione si eviterebbe e soprattutto quanto più sicura diventerebbe
l’esplorazione di queste zone, al momento ancora lontanissime dall’ingresso.
In totale questa volta abbiamo risalito 140 metri, senza considerare il
Kraken, e ne abbiamo rilevati 500.
Abbondantemente appagati, ma un po’ stanchini, rientriamo al campo dove
riposeremo per le successive 12 ore. Tanta è ancora la strada da qui
all’uscita.
Altra sosta di qualche ora in Locanda (Campo 2) e poi via sparati verso la
Casera.
Rivediamo il sole domenica mattina. La giornata è splendida, non potevamo
chiedere di meglio.
Al rientro in casera, oltre a Ciccio, il Cicca e il suo socio Dionisio,
troviamo anche Stefano, salito per darci una mano nel trasporto dei materiali a
valle. Grazie!
Il clima è davvero festoso, si mangia e si beve come non ci fosse un
domani. In questa atmosfera magica rea
lizzo quanto fortunato sono a vivere momenti così circondato da queste
fantastiche persone.
La discesa a valle, tra una chiacchera e l’altra, passa velocemente e in un
amen ci ritroviamo di nuovo immersi nella civiltà.
Alla prossima, sperando di poter narrare della “liberazione del Kraken”.
Fotografie e post di Alessandro Benazzato
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