giovedì 22 dicembre 2011

Norra

Parcheggiamo davanti ad un pugno di case poste alla fine della strada, vecchie case di montagna che ci scommetterei dentro hanno caminetto, stufa ed occupanti ben oltre la sesta decade di età, testimoni di un mondo che probabilmente va a scomparire.
Ci incamminiamo io, la Giulia, Matteo, Pacho (a quattro zampe) e JP, quest’ultimo brandisce svariati arnesi tra cui un piede di porco che ben si abbina al suo scandaloso sottotuta nero dandogli le fattezze di un Diabolik dei poveri; qualcuno potrebbe scambiarci per scassinatori, non fosse che nemmeno il più cerebroleso dei grassatori si avventurerebbe per un sentiero di montagna con intenti predatori.
La giornata è tutto sommato discreta, un timido sole contribuisce a rendere la temperatura sopportabile, abbandoniamo la strada asfaltata all’altezza di una catasta di tronchi e seguiamo un sentiero in parete, al suolo un tappeto di foglie attutisce i nostri passi, sotto di noi si apre la valle di Riofreddo, l’ennesimo meraviglioso e poco conosciuto scorcio di quel Veneto che per me rappresenta il mondo intero.
Siamo già arrivati: mi sbarazzo della mia tenuta da sciatore fallito per infilarmi nella più consona (e lurida) tuta speleo, mentre Matteo mette giù una corda, in maniera tale da evitare che qualcuno (nome a caso: io) si ammazzi nel tentativo di raggiungere l’entrata della grotta.
Ci infiliamo in essa, ognuno di noi trasporta qualcosa chi la mazzetta, chi il badile, a me tocca il secchio che comincio a trascinare negligentemente, la grotta è il classico paradiso del masochista: di starsene eretti nemmeno a parlarne, nel migliore dei casi si procede gattonando, quando non ci si trova costretti ad un ipogeo passo del giaguaro dove al posto delle urla di un sergente istruttore ci sono sassi appuntiti e strettoie.
Dopo un interminabile tragitto, dalla presumibile durata di una ventina di minuti, arriviamo al cosiddetto punto di scavo, dove ci apprestiamo a disostruire un condotto invaso da una soffice e scura sabbia; sotto le istruzioni del capogita Matteo ci mettiamo di buona lena: la Giulia si ficca in fondo con la vanga, Matteo sposta avanti la sabbia con la zappa, JP la butta nel secchio ed io lo svuoto, è tutto molto divertente e sembra di essere in spiaggia peccato manchino il mare e, dettaglio trascurabile, il sole.
Invertiamo i ruoli, io e JP prendiamo il posto della Giulia e Matteo, che ci ringalluzzisce con la propagandistica frase “si lavora bene in quattro”, ora siamo noi sul fondo, andiamo avanti per un bel pezzo alternandoci nel budello finale, un posto dove persino muovere la testa diventa una sfida niente affatto scontata.
Nessuno ha l’orologio e Matteo vuole andare a vedere il ramo principale, del quale la nostra spiaggetta è una diramazione, lo seguo sebbene sappia che bisognerà attraversare un laghetto, ma oggi ho deciso di farmi del male, quindi mi accodo. L’acqua mi stritola il piede in una morsa terribile che mi fa tornare alla mente un sabato del marzo 2010, quando mi avventurai per la prima volta in vita mia in una grotta, esco dalla pozza, vorrei piangere ma mi limito ad un paio di bestemmie ben assestate, compagne inseparabili di ogni spedizione, Matteo e JP gironzolano, sgusciano in condotti vari, riscoprono salette, io mi butto scompostamente per terra attendendo il loro ritorno.
Torniamo indietro, il solo pensiero di riattraversare l’artica pozza mi apre scenari di agghiacciante angoscia e ne ho la drammatica conferma appena ci torno dentro, dopo un disperato tentativo di stare fuori dall’acqua il più possibile; esorto poco educatamente JP a darsi una mossa, con un paio di eresie per enfatizzare la mia richiesta.
Ripercorriamo tutta la strada, che sorprendentemente dura meno di quanto pensassi, sebbene i sassi, le strettoie e le imprecazioni siano esattamente le stesse dell’andata; usciamo fuori che è ancora chiaro e risaliamo, la corda tiene ed in qualche maniera riesco ad arrampicarmi fino a su senza rompermi l’osso del collo ed esibendomi in performance che definire ridicole sarebbe pietoso. Ce ne torniamo verso la macchina, Pacho ci precede caracollando gioiosamente per il sentiero, facciamo una breve sosta per osservare un covolo che si apre nella parete di fronte a noi, ipotizziamo, progettiamo, favoleggiamo, vediamo o forse crediamo di vedere una traccia di sentiero che porta ad esso, mentre le montagne attorno a noi ci osservano con fare sornione ed accondiscendente, consce della nostra meschina natura umana, così insignificante rispetto a loro. 

Vipera