martedì 7 settembre 2010

Frammenti di viaggi dal punto di vista della nebbia

Il fumo della sigaretta di contrabbando filtra trai denti del pastore. Le sue labbra contratte da un sorriso, il viso segnato dal tempo, percorso da rughe fonde come le notti passate a fuggire nelle sue montagne.
Sorride, parla delle “sue” montagne, del vuoto che contengono e di cui ha spesso intuito l’esistenza. Restiamo a gambe incrociate, io e Guido, sopra spessi tappeti di Persia, cercando di intuire quale possa essere la posizione più rispettosa da mantenere in fronte al padrone di casa.
Comunichiamo, mescolando lingue, gesti, espressioni, mentre il pastore albanese, steso trai cuscini ci osserva, divertito dal nostro cercare il buio nel suo regno delle pecore e delle montagne impervie.
Da un angolo della baracca, la moglie, che osa avvicinarsi solo in presenza del marito, poggia ai nostri piedi due ciotole colme di caffè turco. Si allontana in silenzio dopo averci raccomandato di essere pazienti, poiché la polvere di caffè ha bisogno di sedimentarsi prima di berlo.
Al di fuori di quelle assi di legno, lontano dalle candele che illuminano la baracca, più in là, oltre il recinto delle pecore, aldilà del crinale dove ululano i lupi, il giorno precedente eravamo affacciato sull’orlo dell’abisso.


Marco, fumante di sudore, accaldato dagli spit appena piantati, scende in quello che doveva essere l’ultimo buco dei quindici che abbiamo scoperto vagabondando a piedi sulla catena del Prokletje.
Uno squarcio colmo di neve, uno di quegli ingressi che speri che non nasconda una grotta. Un cunicolo alla base di una parete, un filo d’aria, qualche sasso da spostare, uno spit piantato in fretta.
Si schiude una piccola sala, la quale termina con un meandro sfondato su del nero. Il nostro accurato profondimetro azzarda un “20 metri”.
Ci guardiamo soddisfatti, getto una gassa di corda su un “solido sperone di roccia” e scendo. Mi apposto all’ingresso del pozzo a piantare un paio di spit. 20 minuti di smartellate, poi placchette, poi moschi, poi coniglio, poi.. vedo che un caro collega è deciso a scendere prima di me, è il signor “solido sperone di roccia” che nel frattempo si era stancato di reggere il mio peso e ha optato per l’estremo gesto. Si schianta sul fondo del pozzo, simpatica coincidenza quella di aver attaccato la longe al nuovo spit pochi istanti prima. Marco inarca le sopracciglia e impreca, ma impreca in modo misurato e conciso, secondo il suo carattere. Poi ristabilito il suo equilibrio mi invita a seguire il sasso, giù, nel nero mai illuminato.
Un terrazzo, traverso, corde ovunque, spit, smartellate, attacchi inaffidabili, cordini, vuoto nero ed irraggiungibile alla luce del carburo, e poi discesa. La corda da 40 termina, e sono immerso nel vuoto, le pareti lontane mi raccontano che ai loro piedi esiste uno spazio ben più grande del meandro da cui provengo.
Giunto la corda, passo il nodo, scendo altri 20 metri, tocco il fondo. Le pietre si assestano sotto il mio peso, il loro rumore risuona alle mie spalle. Mi volto, un enorme portale a V rovesciata mi osserva in silenzio, aldilà solo spazio vuoto.
Punto il mio faro, mi slego, corro, mi rovescio sul sacco, cado, lo lancio per terra, continuo a correre aldilà, nel nero che non riesco ad illuminare, urlo, chiamo Marco e John, e la fine non è ancora parte del mio sguardo. Provoco una frana, sbatto il ginocchio, bestemmio, rido ad alta voce, agitato, felice, impaurito, arrampico su enormi macigni, urlo ai miei compagni di scendere, e la fine è ancora lontana.
La mia corsa termina su una parete ai piedi di una grande galleria, mi volto, Marco giunge in quel momento a 100 metri di distanza dalla parte opposta della sala, in silenzio, ci rendiamo conto nello stesso istante delle dimensioni di quel vuoto, e nonostante la distanza non avevo difficoltà a vedere il suo sorriso..
Lui cammina con calma, godendosi ogni attimo, fermandosi di tanto in tanto, mi raggiunge, sorride ancora, mi stringe la mano, in modo pacato ma profondo, facendo attenzione a non lasciarsi trasportare da ciò che lo circonda ma al contempo trasportato dall’immensità. Sempre composto e posato esprime i suoi sinceri e ponderati apprezzamenti per ciò che stava vivendo, mentre John senza nemmeno aver visto nulla ululava dalla cima del pozzo la sua voglia di scendere.


Uno sbuffo di fumo leggero, si solleva di nascosto dal cortile della fumeria, ed inizia il suo delicato cammino verso il cielo di Sarajevo. Un cielo terso, in una città di ciottoli, di vicoli stretti, di artigiani che calcano i loro ghirigori sui pentolini di metallo, con cui la sera usano bollire il loro caffè turco. Dalla torre della moschea, un uomo invoca il suo canto antico e sapiente, che entra nei cortili, oltrepassa le case basse, le acque del Miljaka e risuona trai condomini sereni, graffiati ancora dal passato, ma sereni.
Cedo a John la pipa del narghilè, lui la stringe tra le mani come uno scettro. La porta alla bocca, il vaso gorgoglia, si alza il fumo ancora una volta.


La nebbia sale leggera e si disperde, lasciando alla pioggia l’ultima possibilità di amare il sole. I due esplodono in un arcobaleno immenso e terribile, silenzioso ma loquace. Scivoliamo dalle sue parole all’esplorazione in un istante impercettibile.
Quasi senza accorgermene mi ritrovo sul fondo di un buco a scavare sulla sabbia assieme al Guasto, seguendo i racconti del vento di grandi gallerie e immense sale aldilà di quel sifone .
Mani usate come pale si congelano all’aria, grattando sulla sabbia umida, stringono macigni, creano il vuoto. Ci strattoniamo l’uno con l’altro dentro quella strettoia, passandoci il materiale e il coraggio per credere che c’è qualcosa oltre, e che non dobbiamo tutti tornare indietro a testa ingiù a carponi, spingendo con le mani verso un fondo chiuso e pericolante. Ma l’aria sostiene che non è la fine, una galleria, ancora acqua, un cunicolo, una frana, aria che si perde e domanda forse un altro esploratore in un altro momento. Torniamo indietro.
Saliamo le pareti di un pozzo, ghiacciate ma ampie e levigate, più in là un meandro labirintico, un dedalo di gallerie e di punti interrogativi. Uno di questi punti interrogativi diventa un punto esclamativo, quando ci apre la strada ad un tunnel cilindrico di 4 metri di diametro che placido s’addentra nel ventre della montagna. Altra frana, altri cunicoli, l’aria dove và? Boh? Che importa.
Torniamo indietro.
Spostiamo due sassi, un cunicolo ci presenta una frana gentile, che ci somministra un’ennesima strettoia. Ancora una volta ci spingiamo l’un l’altro, ci incitiamo l’un l’altro, ci offendiamo l’un l’altro, ci abbracciamo l‘un l’altro, alle porte di un nuovo vuoto.
Il fondo di un pozzo, sassi mescolati a mandibole, piccoli femori, ossa ingiallite, piovute da un nero più in alto, 30 metri più in alto sulla cima del pozzo. Corriamo giù per la galleria nuova, 50 metri di discesa per poi schiantarci in una parete liscia, e il meandrone che continua poco più alto, che và da qualche parte per qualcun altro in qualche altro giorno. Torniamo indietro.
Per oggi siamo sazi, gonfi di cibo e amicizia e buio, ci ritroviamo seduti sulla frana appena forzata, ognuno sul suo sasso pericolante, ognuno con la sua dose di esplorazione appena iniettata nelle vene, strappo la linguetta dal brick di Tavernello.
John osserva le pareti. A luce spenta, osserva le ombre delle rocce, striscia con la mente sempre più lontano, sempre più all’esterno.
Il Guasto sembra stanco, ma non riesce a frenare l’entusiasmo, agitato da un’intera giornata di esplorazione, dalla “prima esplorazione”; la sua cicca arde veloce, risucchiata dai suoi pensieri.
Ingoio il primo sorso di Tavernello, e osservo i miei compagni. Ora lo capisco, esplorare non mi interessa nulla, in realtà sono qui per condividere questo momento.
Il fumo della legna bagnata oltrepassa il folto degl’alberi, s’innalza aldilà delle chiome delle latifoglie, avvolge le cime dei larici. Annuso il profumo di carne sul fuoco ben prima di giungere al campo, e ne sento il gusto sulla lingua già da molte ore ormai. Da appena ho finito il brick di Tavernello, questa notte, nell’abisso Blu.
Oltrepassiamo correndo i prati folti di cardi e aconito, la traccia segata trai mughi s’infrange su un boschetto inclinato, ammantato di un vago profumo di casa. Un profumo che il Cicca è in grado di ricreare ovunque si trovi. Ci avviciniamo al focolare, treni di domande, bottiglie di vino, salsicce alla brace, il calore del fuoco, e intorno lo stesso silenzio della grotta.
Ringrazio Anna, per il panino fornitoci di nascosto prima di entrare in grotta, nonostante il rigido razionamento alimentare del Cicca.
Parliamo ancora una volta dei nostri sogni di buio e usando l’alcool come slittino pian piano scivolo verso il sonno più nero, raggomitolato davanti al fuoco.
La mattina, la luce mi filtra tra le palpebre e giunge dritta al cervello, mi sveglio. Con un bastone il Cicca cerca le patate tra la cenere, ne trova una, la scarta dalla stagnola, me la porge per colazione. La mando giù con gli ultimi sorsi di grappa.
Aldilà del prato John e il Guasto dormono ancora nella loro tenda montata su un pendio inclinato, quasi sfondandola da un lato.
L’Anna ancora coricata, ha deciso di combattere il freddo della notte dormendo praticamente sopra le braci ardenti.
Il Cicca che non ha bisogno di dormire, beve un sorso di caffè, si arrotola l’ultima sigaretta e quando nemmeno si è volatilizzata l’ultima sbuffata di fumo, è già in cammino per il ritorno. Con in testa il terrore di non aver più tabacco nemmeno in casera e di dover quindi divallare.
Gli altri si svegliano, alcuni vanno a prendere l’acqua, altri nascondono il materiale da grotta in un piccolo covolo, sperando non venga rubato dall’inverno.
Mi trattengo ancora un po’ sul prato di Cimia, solo, per raccogliere dei cardi […]

JP



Il Salone dell'Antica Osteria (Foto: Luigi Russo)