giovedì 1 ottobre 2009

Un ricordo di Michele - 30 settembre 2009


Era l’estate del 2001. Io, ragazzetto di pianura, mi affacciavo in punta di piedi al mondo delle grotte e della speleologia. Il campo speleologico in Piani Eterni era una delle prime occasioni per assaporare il piacere dell’esplorazione sotterranea.
E farlo con gli amici di Valdobbiadene, Belluno e Feltre costituiva l’opportunità per frequentare gente in gamba – pensavo fra me e me -. Tutta gente più grande, più esperta di me, più brava, tutte persone che suscitavano quella riverenza che si prova verso i veterani. Nessuno però mi trattava da piccolo, e questo mi dava grande soddisfazione: sentirsi trattato quasi al pari di un Marco u, un Paolo o un Ciccio... beh scusate se è poco...
Una mattina ecco spuntare dal Vallone di Campotorondo gente nuova. Nuova per me, che non li conoscevo, ma gente conosciuta e ben più avvezza alle scorribande negli abissi dei Piani Eterni.
Nel frattempo al campo si era deciso di dedicare la giornata allo scavo della grotta Bronchite, che la neve invernale aveva tappato. Voi potete immaginare cosa vuol dire scavare un tunnel nella neve di un abisso che qualcuno ha chiamato Bronchite! Beh, forse io non lo avevo ben intuito, così mi stavo preparando in casera con tutto il materiale: la tuta, il carburo, un badile... proprio tutto, fuorchè quello che poteva servire per stare al caldo, come guanti, un pile in più...
Stavamo per partire dalla casera verso la grotta, quando vedo che dal gruppetto appena arrivato dal Vallone si stacca un giovane uomo, fisico asciutto, capelli corti, sguardo basso. Senza aprire bocca si accoda a noi, e con lo zaino in spalla ci segue.
Non è che in quell’ora di camminata per arrivare in Bronchite si siano fatti chissà che discorsi, anzi. Quella strana figura se ne sta zitta tutto il tempo. Anche in grotta, quando non è turno di scavo, chi aspetta chiacchiera, si riprende dal freddo, insomma... fa qualcosa. Lui no, se ne sta zitto in disparte e guarda.
Ecco che viene il mio turno. Le mani si gelano subito, bastano poche spalate di neve e tutto il mio furore speleologico si scontra con la fredda, freddissima realtà di Bronchite.
Solo a quel punto quello si alza, si avvicina, mi fissa un poco con misto di indifferenza e biasimo e dice: - cavate bocia!-. Mi afferra la pala e comincia a scavare al posto mio, fino a quando il lavoro non sarà ultimato e Bronchite stappato.
Molto più che il freddo, un freddo pungente e profondo, poterono quelle due parole e quello sguardo... Che lezione in quelle due semplici parole!

Penso che ci sia molto di Michele in questo episodio. La cosa che mi ha colpito subito è stata quel suo carattere molto riservato, direi schivo, quel suo essere di così poche parole, e anche quelle poche magari non sempre amichevoli. Il tipico montanaro, pensavo fra me e me, imprigionato in quelli schemi mentali che ci portano a vedere con superificialità le cose...
Ma a ben vedere Michele celava un grande cuore, che lo aveva avvicinato al Soccorso in montagna al punto di impegnarsi su tutti i fronti possibili. Mi piace sottolineare che in tutto il Veneto non esiste nessun altro volontario che possiede le qualifiche tecniche per operare in grotta, in montagna e in forra. Forse allora quel “cavate, bocia!” più che un gesto di biasimo era una forma di premura verso un ragazzetto rattrapito dal freddo, un gesto fraterno che potrebbe suonare meglio come un “adesso torna pure al caldo, che qui ci penso io”.
Ed in effetti avreste dovuto vederlo col badile in mano... Ecco allora che appaiono più chiari altri segni distintivi di Michele: dovunque lo mettessi lui ci stava bene: poteva in sella ad una bicicletta giù per una montagna, in grotta, in forra, sugli sci... Tutto vissuto sempre al massimo delle possibilità, senza risparmiare nulla ad un fisico prestante e a delle mani che conoscevano bene la fatica. La fatica del lavoro, il legame con la terra, la sua terra, il peso di un sacco speleo trasportato in meandro.
Forse il vero problema con Michele era l’esatto contrario, ossia la difficoltà a mettere un freno al suo entusiasmo, alla sua iperattività: sapete bene quanto per lui le vicende legate alle operazioni subite in testa fossero una grande rottura di palle, e non tanto per il problema in sé, quanto per il fatto di dover rimanere fermo senza potersi dedicare a una corsetta, una sciata, una girata con gli amici in moutain bike...
Il caso ha voluto che ci lasciasse pochi giorni dopo l’operazione conclusiva alla testa, dopo la quale si considerava finalmente libero di tornare fare tutto quello che faceva. Ma così non è stato.

Di fronte alla morte di Michele si spalanca un grande e amarissimo senso del niente. E anche se la parola “dono” è una parola logora e che può sembrare evocare visioni semplici, semplicistiche, elusive rispetto alla tragedia di una vita spezzata, sono certo che conoscere Michele è stato per me un grande dono. Lo è senz’altro stato anche per Mario, Giovanni e tutti quelli che lo hanno visto entrare nel 2001 nel Soccorso Speleologico e che lo hanno visto crescere con il loro insegnamento. È stato un dono per Luciano, Omar, Ofelio e gli altri del Gruppo Speleologico del CAI di Feltre, che in Michele vedevano oltre che un amico un valido istruttore di speleologia e un grande protagonista delle esplorazioni in Isabella e in Valle Imperina. È stato un dono per la Stazione Alpina di Feltre, dove Michele era entrato da qualche anno. È stato un dono per tutti quelli che lo hanno consciuto nelle mille cose che lo vedevano impegnato.
C’è un’antica sapienza secondo cui il mondo si regge nelle mani dei giusti. Sono sicuro che oggi anche le forti mani di Michele reggono il mondo.

Cristiano